Serve
una nuova soluzione globale
Di
Carlo Pelanda (4-11-2008)
Oggi
l’America sceglie il presidente. L’esito elettorale sarà particolarmente
importante per il resto del mondo perché la locomotiva americana che da più di
60 anni traina la crescita del mercato mondiale ha gravi problemi di
funzionamento. Infatti sta rallentando, causando via minori consumi interni una
rapida recessione globale per caduta delle importazioni. La gestione politica
sarà determinante per accorciare o allungare i tempi di riparazione del sistema
economico e finanziario statunitense.
Sarebbe meglio Obama o McCain? Difficile valutarlo perché i loro programmi
politici non sono stati aggiornati in relazione agli ultimi sviluppi della
crisi e certamente chi dei due vincerà dovrà farne di nuovi. Nell’attesa
vediamo un problema che richiederà comunque nuove soluzioni .
Al momento le
previsioni tendono a convergere su un’ipotesi di recessione in America che duri
almeno tre trimestri, a partire dal terzo del 2008 (Pil a -0,3%). La deflazione
sarà trasferita ai Paesi che più dipendono dall’export. La Cina fa il 32% del suo Pil
via esportazioni dirette negli Usa ed il 42% aggiungendo quelle verso Europa e
Giappone. Germania ed Italia sono le economie europee più dipendenti
dall’export. Il calo della domanda sia in America sia in Cina, colpirà ambedue
ed il Giappone. Se veramente l’America riprendesse la crescita nella primavera
del 2009 l’impatto sul resto del mondo sarebbe grave, ma non al punto da
destabilizzare l’economia globale. Tuttavia c’è un problema strutturale.
Certamente l’America ha un sistema economico flessibile e vitale capace di
reagire con velocità alla crisi recessiva. Ma non necessariamente quando
tornerà in crescita lo farà con un forza tale da trainare il resto del pianeta
come nel passato perché il suo sistema interno è stato seriamente danneggiato e
ha bisogno di riparazioni. Se l’America restasse a bassa crescita per un
periodo prolungato i Paesi più dipendenti dall’export dovrebbero bilanciare con
più crescita interna la riduzione di quella esterna. Ma europei, giapponesi e
cinesi sono in grado di modificare il loro modello economico in poco tempo? La Cina finanzia con export
l’industrializzazione e la migrazione dalla città alla campagna. Sta usando
tale modello da metà degli anni ’80 con successo. Proprio per questo non le
sarebbe facile modificarlo in poco tempo. Le cronache ci mostrano ogni giorno
quanto sia difficile, sia per europarametri sia per problemi di consenso,
ridurre anche di un pelo le tasse in Italia e negli altri Paesi dell’eurozona
per stimolare la crescita interna. Il sistema consociativo nipponico è
altrettanto rigido pur per motivi diversi. In sintesi, se l’America importasse
di meno per tre anni le altre principali economie del mondo non riuscirebbero a
compensare via maggiore crescita interna. La crisi di deflazione diventerebbe
grave e ciò potrebbe destabilizzarle. La loro moneta cadrebbe, le crisi di
insolvenza sarebbero devastanti, la gente chiederebbe soluzioni protezioniste
ed assistenziali che peggiorerebbero il quadro. L’America importerebbe questo
caos dal mondo, destabilizzandosi anch’essa, e certamente non è nel suo
interesse. Per questo chiunque sia il presidente tenterà di farla tornare
locomotiva robusta. Ma non sarà facile né breve. Per questo il nuovo presidente
americano dovrà avere un’idea in più, ma anche noi europei. Quale? Una nuova
architettura politica del mercato globale. Sarà inevitabile per salvarlo e
salvarci.
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